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Il rigo della controra

Ph. isabellabello.com

 

Azzurra era del Nord. O meglio: i suoi genitori erano nati e cresciuti in questa terra di ulivi contorti e di rovi selvatici, stradine di chianche e sedie impagliate fuori dalle porte addobbate con un cocomero, un pomodoro, un mucchio di fagiolini. Erano nati qui, in questo paese dove l’estate si chiamava “la stagione” e dove tutto taceva, come sotto un incantesimo denso, a cominciare dalle due del pomeriggio, fino a quasi le cinque. Tre ore. La controra.
Figuriamoci: cosa ne poteva sapere lei di questa fase del giorno estivo, abituata ai lenti aperitivi in piazza delle Erbe in una Padova signorile, operosa, in cui lei e i suoi amici si ritrovavano dopo le lezioni all’università parlando a bassa voce con quel contegno alterigio, tipico della città. Tutto molto diverso dalle abitudini del posto: qui si usciva tardi, al tramonto e ci si dava appuntamento nelle piccole piazze del paese, accanto ai bar. Qualcuno scendeva verso il mare, dove si ballava, altri si organizzavano per un raduno in campagna di qualcuno, racimolando prima qualcosa da mangiare, un anguria, birre oppure del vino.
Al Sud c’era venuta solo da piccola: quando ancora viveva la nonna Rosella, madre della madre, una donna con un filo di voce ma con uno sguardo fiero, altero, che lei aveva ereditato.

Rosella, madre di quattro figli, aveva fatto la tessitrice per molti anni ed essendo diventata presto vedova del marito Leonardo, aveva fatto anche dei lavori in campagna, riuscendo a mettere qualcosa da parte per “sistemare” i figli. La sua casa, che spiccava per la calce bianca era piccola ma accogliente, ed era sempre stata nel cuore del centro storico, in via Canerini: una piccola scalinata portava all’abitazione dove aveva vissuto fino gli anni della vecchiaia.
Azzurra conservava un ricordo vago di quella zona del paese: la tinteggiatura talora bianca talora grigia delle case, la facciata baciata dal sole della Chiesa Matrice, col suo affaccio sulla gravina ed i suoi sassi antichi, la sua vegetazione ed i suoi anfratti. Ricordava le scale e le chianche: il percorso sino ad arrivare a casa di nonna Rosella, avvolta nella luce del solleone, quando a fine luglio i suoi si trasferivano in paese per due settimane esatte.



Non ricordava più le abitudini di sua nonna e dei suoi concittadini: il silenzio mistico che avvolgeva quei luoghi di pietra e sole in talune ore del giorno e quel “risveglio” degli abitanti come in un luogo fiabesco che si desta da un sortilegio momentaneo.
Nonna Rosella era morta che lei aveva 14 anni: da allora i suoi non trascorrevano più le consuete due settimane in via Canerini ed avevano “ristretto” la vacanza al Sud a qualche giorno, ospiti da una cugina del padre.

Ph. isabellabello.com

Quel giorno, alla controra, però Azzurra era lì. Con le sue scarpe da ginnastica chiare, i capelli raccolti in una treccia, uno zaino sulle spalle e la sua immancabile Nikon d3400. Si era offerta di accompagnare una giornalista della sua città che stava realizzando un appetibile reportage nei luoghi più belli della Puglia: “Tu se non sbaglio hai origini pugliesi. . .” le aveva detto Marina un pomeriggio in piazza delle Erbe e lei aveva sorriso. “Mi serve un appoggio in Puglia: parto dopodomani e vado a caccia di scatti nei centri storici pugliesi, che dici, potresti darmi una mano?”. Azzurra aveva trovato la sua occasione per scendere di nuovo in Puglia, rivedere i luoghi dove da bambina aveva giocato, aspettando di essere richiamata per cena dalla nonna Rosella.
Ma anche per ritrovare una persona.
Una persona che aveva visto l’ultima volta molti anni prima: quando aveva 14 anni e di cui conservava ancora una lettera che poi, era solo un rigo.
Un foglio con un rigo soltanto: “Respira e pensa ai nostri baci”.

Il paese era diventato più caotico negli ultimi anni e alcuni punti di riferimento erano cambiati: il panificio non era più dove si ricordava, il fruttivendolo di fiducia di nonna Rosella era morto, le auto erano notevolmente di più, erano sorte nuove attività. Ma il fascino del centro storico era rimasto intatto. Pervaso dalla luce che si spalmava come miele nei vicoli, che riscaldava le chianche e i davanzali, che batteva sui terrazzini pieni di gerani rossi e rosa.

Azzurra camminava a passo spedito lungo via San Giovanni, cercando di ricordarsi quale di quelle porte fatte di lamiere colorate fosse il locale dove per diversi anni, da piccola, si era rifugiata durante le piogge improvvise con il gruppo sparuto di compagni estivi, che ritrovava quando era ospite da sua nonna. Qualche locale era aperto: si intravedevano uomini e donne al lavoro, barili di olio e conserve, ape-car parcheggiati, attrezzi di campagna.
Tutto era uguale, tutto era cambiato.

“Non sei la figlia di Lina, tu?” chiese una donna con un abito a fiori lungo di cotone, uscendo da una porta piccola, azzurra, un po’ arrugginita “Eh, si..sono io..”
“La nipote di Rosella! Sei uguale a tua madre”. Azzurra non ricordava chi fosse quella donna ma si avvicinò subito: poteva esserle di aiuto.
“Ma qui vicino abitano ancora Laura…Francesca…erano delle bambine quanto me…un po’ di anni fa…”.
“Eh, guarda, qui non abitano più molte persone, i giovani poi. . .sono andati tutti via”.
“Tutti?” aveva ripetuto Azzurra “E Paolo? Non ricordo il cognome. . .”.

Paolo era il bambino che Azzurra temeva di più quando erano piccoli: era sempre di corsa, faceva scherzi continuamente, catturava le lucertole e si arrampicava dove era proibito. Lei lo guardava infastidita ed ammirata e lo seguiva nelle sue scorribande sotto il sole cocente estivo. Alle medie il loro rapporto era cambiato: si confidavano tutto, parlavano per ore sul piazzale di via Canerini. Lui amava scrivere e lei fotografare.
La nonna Rosella era morta alla fine dell’estate dei 14 anni di Azzurra: la stessa settimana in cui Azzurra e Paolo si erano baciati per la prima volta.
Lui le aveva dato un foglio di quaderno a righe arrotolato, con quell’unico rigo scritto.

Poi non si erano più visti, sentiti.
Per alcuni anni i suoi non erano più tornati in Puglia. Per altre estati non aveva voluto tornarci lei perché presa dalla sua vita a Padova, da altre organizzazioni.
Ma non aveva mai buttato quel foglio: “chissà se lui si ricorda di me” si chiedeva.

Faceva caldissimo: Azzurra aveva fatto delle fotografie e si era ripromessa di aspettare la sua amica Marina davanti al sagrato della Chiesa Matrice, poggiata al grande balcone di muro, guardando lo scenario murgiano che gli ricordava la Cappadocia. Un velo di tristezza si era posato su di lei: era stata sciocca, si disse, a cercare i vecchi ricordi.

“Ma tu sei Azzurra?” disse una voce al suo fianco.
Lei si voltò di scatto. Paolo sorrise.

È un racconto tratto da una storia vera.

Ringraziamo l’autrice e giornalista
Antonella De Biasi