Peppino ci racconta di quando il pane si faceva in casa
Giuseppe Piccolo, classe 1952.
Non è solo un maestro del pane, ma ancor di più amante del suo paese natìo, delle tradizioni, del folklore e della cultura di un territorio e delle tante storie da raccontare.
Peppino ci racconta di quando il pane si faceva in casa.
In occasione della visita dei bambini del plesso scolastico Giovanni Paolo II, al forno Piccolo di via forno, per le festività pasquali, le mamme e le maestre dei bambini hanno fatto le colombe, e i bambini le guarnivano con le codette con grande curiosità e attenzione e questo evento stimolava il loro spirito di apprendimento inerente alla tradizione che si è perpetrata nel tempo.
Vedendo la gioia e l’entusiasmo dei bambini ho fatto una riflessione a ritroso sulla struttura del forno, chissà quante migliaia di bambini hanno assaporato questa gioia, considerando che la struttura è esistente, da come si dice, da oltre 250 anni. Infatti un commerciante del barese venuto qui a Ginosa, di statura molto piccola, tanto da affibbiarli il nomignolo “jè quànte na chiànte de cècere”, (è alto quanto una pianta di ceci). Questa persona costruì questo forno.
Da cui dopo prese il nome la strada via forno e il quartiere che si chiama “Abbasc a chiand d cecr”. In occasione delle festività nel periodo di Pasqua i bambini aspettavano con trepidazione la cottura delle cosiddette colombe che appena sfornate le volevano mangiare al momento, poi c’era il profumo dei taralli scaldati, il profumo dei dormenti, il profumo dei biscotti all’epoca le pasterelle nonché il profumo del pane e delle focacce.
Per il Santo Natale era altra tradizione, u’ qualzòne ca cepòdde e spunzàle; ovvero la focaccia ripiena con cipolla lunga cotta prima con l’aggiunta di acciughe salate, olive denocciolate, capperi e ricotta forte per chi la gradiva.
Tra le altre riflessioni c’era quella dove in ogni quartiere del paese c’era un forno a disposizione del vicinato. Infatti, all’epoca, ogni famiglia di faceva il pane in casa pagando al fornaio solo la cottura del prodotto da cuocere. Lascio immaginare la trepidante attesa della cottura della focaccia e del pane caldo, considerando che si impastava il pane una volta a settimana; un ruolo importante in questo contesto lo ricopriva il fornaio o la fornaia, infatti verso l’una o le due le donne avevano impastato, davano tempo per la lievitazione lasciandolo riposare un paio d’ore o più a seconda della temperatura ambientale e aspettavano il suono della tromba del fornaio (ca da arrusenà) posizionandosi ad ogni angolo del quartiere per farsi sentire da tutto il circondario, le donne frazionavano la pasta dandogli la forma tonda con pezzature da 2 a 3 e oltre kg l’uno e mettendoli in appositi canovacci ben legati su una tavola di legno lunga 2 metri e larga 40 cm. Le stesse donne si mettevano in testa la tavola del pane interponendo tra la testa e la tavola un canovaccio arrotolato (la spàrie), un cuscinetto di stoffa che fungeva da ammortizzatore tra la tavola del pane e il cuoio capelluto della donna durante il tragitto verso il forno.
Per la preparazione dell’impasto del pane si usava solo il lievito madre (u luàte) conservato in un vaso di terracotta smaltato all’interno (luatére) e questi, si passava da famiglia a famiglia a secondo del bisogno, eccetto famiglie approssimate.
Delle sfumature importanti erano calmierate a seconda di alcuni fattori, esempio: quando il lievito madre era più forte di acidità, se ne metteva di meno nell’impasto oppure a seconda del periodo climatico ci si adeguava alla temperatura ambientale d’inverno, l’impasto veniva amalgamato con acqua tiepida, a primavera a jàcque de sòle, de staggiòne con acqua fresca, e nei periodi troppo caldi si scioglievano in acqua un paio di zolle di solfato di ferro (u vetrejuòle) una sostanza non nociva che però calmierava la lievitazione per non farla andare in eccesso.
Tra gli arnesi usati dalle massaie per l’impasto erano e sono u tauliére (tavoliere), la rasòle (spatola), la setélle (setaccio per la farina), e u péte de la setélle, questo è un aggeggio di legno su cui veniva messo il setaccio sopra con la farina dentro con un movimento avanti e indietro agevolando la setacciatura della farina.
Il ruolo del fornaio o fornaia, come detto già prima era importante per vari motivi.
Tutte le donne sposate facevano il pane in casa, c’erano le veterane e le giovani inesperte, considerando che, all’epoca, si sposavano anche all’età di 16 anni, quindi il fornaio quando notava l’inesperienza delle giovani donne cercava di dare consigli utili ed essenziali per il giusto processo di trasformazione, e i tempi necessari fino al risultato finale, perché quando il pane è buono si tiene più a lungo e lo si mangia anche senza companatico.
Gli attrezzi del fornaio: le pale per infornare, la tromba per il richiamo, u furcédde (forca) per mettere le fascine nel forno, u ruòtele per spostare la brace al lato per infornare, u münele che sarebbe una pezza di stoffa consistente che serviva a raccogliere la cenere depositata nel forno.
Per vedere se il forno aveva raggiunto la temperatura ottimale per la cottura c’è un accorgimento molto semplice, quando il cielo all’interno del forno diventa bianco si dice stà a riòre (sta a potenza), si può infornare.
In merito all’argomento devo mettere in risalto la figura di mia madre Isabella, artefice iniziale della nostra attività.
Aveva sempre un comportamento benevolo nei confronti della clientela; tra le clienti alcune donne, oltre a saper fare il pane, avevano una dote naturale, infatti, quando mia madre sfornava il pane, di queste donne diceva “vevé jé na pènne stù pàne” è leggero come una piuma questo pane ben lievitato. Io gli chiedevo il perché di questa differenza, mi rispondeva dicendo: “Chère tène la màna càlle” – quella ha le mani più calde delle altre, quindi, la temperatura delle mani della persona aiutava la lievitazione durante il processo di lavorazione.
C’erano altre sfaccettature verbali inerti, ad esempio quando delle clienti mi dicevano: “a me mburnàmille a male vecìne, a me mèttemìlle all’alzàture, volevano il pane più morbido, a me mèttemìlle réte réte perchè lo volevano più cotto.
Il forno oltre ad essere luogo di cultura gastronomica essenziale, era anche luogo di aggregazione culturale per confronti e crescita morale per come crescere e svezzare i bambini ed educarli in modo adeguato.
Un episodio particolare l’ho vissuto all’età di 8 anni; una giovane cliente sposata, ma inesperta nel fare il pane, rimase terrorizzata del fatto che il pane non le fosse venuto bene, lo si vedeva dallo sguardo. All’epoca, negli anni ’60 era forte la ‘cultura maschilista’; vidi mia madre che la prese con dolcezza, le consigliò in che modo doveva modificare la lavorazione per modo e tempi, così le disse: “ci marìt se ngazzà” dì ca la furnàre se scurdàte de mburnà” vuol dire: se tuo marito si arrabbia digli che io mi sono dimenticata di infornare il tuo pane – se me lo viene a chiedere me la vedo io.
Non vi dico il significato che ha avuto per me quell’episodio vedendo questa donna più rincuorata dopo le parole dette da mia madre; per me è stato un bellissimo esempio da tenere in considerazione. Ricordo pure una cliente di mia madre, esemplare, la signora Palmina, donna di garbo, seria, essenziale, quando parlava uscivano dalla sua bocca solo parole benevoli verso il prossimo e il suo vicinato, il suo pane era sempre al top.
Per abitudine periodica, al sabato delle feste patronali, il forno era uno spettacolo di gastronomia, il pane non lo impastava nessuno, però c’era una moltitudine di tegami da cuocere in casa, non c’erano forni per uso domestico e così li portavano a cuocere da noi. Gli avventori andavano alla processione dei SS. Medici, non vi dico le diversità del contenuto nelle teglie!
U iardiédde anghiüte che le patàne e lampasciüne (galletto riempito con le patate e lampascioni), u cunìgghhie anghiüte che le patàne e lampasciüne (coniglio riempito con le patate e lampascioni), agnello con le patate, u marrètte (involta di interiora di agnello o capretto, condito con formaggio, aglio e prezzemolo, avvolto nell’omento (jìinde a zepperei) con budelle degli stessi animali), u tembàne (lasagna al forno), e tante altre specialità. Vi lascio immaginare i profumi che emanava nel circondario, ed ognuno al ritorno dalla processione, circa alle 14.30 si mangiava con gli occhi il contenuto delle teglie.
Non voglio dilungarmi per non essere noioso, ho spiegato con esattezza la mia esperienza.
Giuseppe Piccolo – Mastro fornaio
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